Nei film di indiani e cowboy della mia infanzia, i pellerossa accusavano spesso i bianchi di parlare con lingua biforcuta. Era un modo tanto colorito quanto appropriato per dire che le giubbe blu (che del potere erano i rappresentanti e il braccio armato) dicevano una cosa e ne facevano un’altra. Usavano cioè la parola, quella
dei trattati ad esempio, in modo truffaldino.
Vizio antico e tuttora in uso, quello degli yankee. Come quando Donald Rumsfeld, Segretario della Difesa degli Stati Uniti sotto l’amministrazione del Presidente George W. Bush, dal 2001 al 2006, si produsse in una geniale arrampicata sugli specchi nel dover giustificare, a posteriori, l’invasione dell’Iraq ‒ spacciata per esportazione di democrazia e missione di pace ‒ disposta sulla base di notizie false che davano il dittatore iracheno Saddam Hussein in possesso di armi chimiche e testate nucleari, nella realtà inesistenti: ”Il fatto è che ci sono conoscenze risapute, ci sono cose che sappiamo di sapere. Ci sono cose sconosciute. Che significa dire che ci sono cose che ora noi sappiamo che non sapevamo. Ma ce ne sono anche altre che sono non conoscenze sconosciute… cose che non sappiamo di non sapere. E ogni anno ne scopriamo qualcuna in più di queste non conoscenze sconosciute”.
La parola usata dunque per confondere. La parola usata per nascondere. La parola usata artatamente per “non far capire”, come le messe in latino di una volta, che dovevano intimorire il popolo bue con parole altisonanti e incomprensibili, per farlo star buono e quieto negli stenti dell’aldiquà, con la promessa di un’eternità di agi nell’aldilà.
È oramai assodato come il grado di sviluppo di una democrazia e la qualità della vita pubblica siano direttamente proporzionali alla qualità delle parole, all’uso che se ne fa e a quello che si vuole esse significhino. Il pericolo, da sempre in agguato, è quello di un linguaggio plasmato sull’ideologia dominante, condizionamento che si realizza attraverso l’occupazione del vocabolario, la manipolazione e l’illecito impossessarsi di parole chiave del lessico comune, oltre che attraverso la censura, naturalmente. Ben lo aveva colto, questo pericolo, una grande intellettuale ribelle del passato, Rosa Luxemburg, quando affermava che “il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”.
All’interno di questo numero, di lingua e linguaggi se ne parla in abbondanza, vengono ampiamente trattati il linguaggio tossico del potere di ieri e di oggi (propaganda e organizzazione del consenso nell’Italia fascista, stereotipi sulla figura dell’Altro nella Ferrara del XVI secolo, le odierne “narrazioni penali”), della politica (il dialetto e l’uso demagogico che ne fa la Lega), del giornalismo e dei media (razzismo e ur-fascismo nei social media e nelle curve della tifoseria calcistica, stilemi della cronaca nera), ma anche quello liberatorio dell’arte (street art, preghiere laiche per i migranti, letteratura post-coloniale, letteratura per ragazzi, cinema e fumetto), dell’accoglienza e dell’incontro (tra cooperanti e profughi nelle tende di un campo siriano, comunicazione nell’esperienza adottiva), della ricerca e della scienza (alleanza terapeutica tra medico e paziente, genesi e evoluzione della nostra specie, dualismo monolinguismo/plurilinguismo).
Le parole, dunque, le parole che, per dirla alla Carlo Emilio Gadda “sono ancelle d’una Circe bagasciona, e tramutano in bestia chi si lascia affascinare dal loro tintinnio”.
Buona lettura…FacebookTwitterEmail